mercoledì 4 aprile 2012

Per seguire meglio Gesu' verso la Sua Passione

9° Ora (Dall’1 alle 2)

Gesù, sbalzato da una rupe, cade nel torrente Cedron:

(Vol. 11°, 22-1-1913) (...) Poi passai a pensare quando il mio amabile Gesù fu gettato dai nemici nel torrente Cedron. Il benedetto Gesù si faceva vedere in un aspetto che muoveva a pietà, tutto bagnato di quelle acque sporche, e mi ha detto:

“Figlia mia, nel creare l’anima l’ammantai di un manto di luce e di bellezza. Il peccato toglie questo manto di luce e di bellezza e vi mette un manto di tenebre e di bruttezza, rendendola schifosa e nauseante. Ed Io, per togliere questo manto così lurido, che il peccato mette all’anima, permisi che i Giudei mi gettassero in questo torrente, ove restai come ammantato dentro e fuori di Me, perché queste acque putride mi entrarono fin nelle orecchie, nelle narici, nella bocca, tanto che i Giudei si facevano schifo a toccarmi... Ah, quanto mi costò l’amore delle creature, fino a rendermi nauseante a Me stesso!”

10° Ora (Dalle 2 alle 3)

Gesù è presentato ad Anna.

11° Ora (Dalle 3 alle 4)

Gesù in casa di Caifa.

Negato da Pietro:

(Vol. 13°, 21-9-1921) (...) Era l’ora in cui il mio amato Gesù usciva dalla prigione ed era portato di nuovo innanzi a Caifa. Io ho cercato di accompagnarlo in questo mistero e Gesù mi ha detto: “Figlia mia, quando fui presentato a Caifa era pieno giorno ed era tanto il mio amore verso le creature, che uscivo in quest’ultimo giorno innanzi al pontefice tutto deformato, piagato, per ricevere la condanna a morte; ma quante pene doveva costarmi questa condanna! Ed Io queste pene le convertivo in giorni eterni con cui circondavo ciascuna creatura, affinché fugando loro le tenebre, ognuna trovasse la luce necessaria per salvarsi e a sua disposizione la mia condanna a morte per trovarvi la loro vita. Sicché ogni pena e ogni bene che Io facevo era un giorno di più che davo alla creatura; e non solo Io, ma anche il bene che fanno le creature è sempre giorno che formano, come il male è notte. Succede [come] quando una persona ha una luce e si trovano vicino dieci, venti persone; ad onta che la luce non sia di tutte, ma di una, le altre godono della luce, possono lavorare, leggere, e mentre loro fruiscono della luce, non fanno alcun danno alla persona che la possiede. Così è dell’operare bene, non solo è giorno per [chi lo fa], ma può far giorno chissà a quanti altri. Il bene è sempre comunicativo e il mio amore non solo spingeva Me, ma dava grazia alle creature che mi amano di formare tanti giorni a pro dei loro fratelli, per quante opere buone vanno facendo.”

12° Ora (Dalle 4 alle 5)

Gesù in balia degli sbirri.

13° Ora (Dalle 5 alle 6)

Gesù in prigione:

(Vol. 12°, 4-12-1918) Questa notte l’ho passata insieme con Gesù in prigione. Lo compativo, mi stringevo alle sue ginocchia per sostenerlo, e Gesù mi ha detto: “Figlia mia, nella mia Passione volli soffrire anche la prigione, per liberare la creatura dalla prigione della colpa. Oh, che prigione orrida è per l’uomo il peccato! Le sue passioni lo incatenano da vile schiavo, e la mia prigione e le mie catene lo sprigionavano e lo scioglievano. Per le anime amanti, la mia prigione formava loro la prigione d’amore, dove stare al sicuro e difese da tutti e da tutto, e le sceglievo per tenerle come prigioni e tabernacoli viventi, che mi dovevano riscaldare dalle freddezze dei tabernacoli di pietra e molto più dalle freddezze delle creature, che imprigionandomi in loro, mi fanno morire di freddo e di fame. Ecco perché molte volte lascio la prigione dei tabernacoli e vengo nel tuo cuore per riscaldarmi dal freddo, per ristorarmi col tuo amore, e quando ti vedo andare in cerca di Me nei tabernacoli delle chiese Io ti dico: non sei tu la mia vera prigione d’amore per Me? Cercami nel tuo cuore ed amami”.

(Vol. 13°, 29-10-1921) Questa notte l’ho passata in veglia e la mia mente spesso volava al mio Gesù, legato nella prigione. Volevo abbracciarmi a quelle ginocchia che tentennavano per la dolorosa e crudele posizione con cui i nemici lo avevano legato, volevo pulirlo da quegli sputi di cui era imbrattato. Ma mentre ciò pensavo, il mio Gesù, la mia Vita, si è fatto vedere come in fitte tenebre, in cui appena si scorgeva la sua adorabile Persona, e singhiozzando mi ha detto:

“Figlia, i nemici mi lasciarono solo in prigione, legato orribilmente e all’oscuro, sicché intorno tutto era fitte tenebre. Oh, come mi affliggeva questa oscurità! Avevo le vesti bagnate dalle acque sporche del torrente, sentivo la puzza della prigione e degli sputi di cui ero imbrattato, avevo i capelli in disordine, senza una mano pietosa che me li togliesse davanti agli occhi e dalla bocca, le mani avvinte dalle catene, e l’oscurità non mi permetteva di vedere il mio stato, ahimè, troppo doloroso e umiliante.

Oh, quante cose diceva questo mio stato sì doloroso in questa prigione! In prigione stetti tre ore; con ciò volli riabilitare le tre età del mondo: quella della legge di natura, quella della legge scritta e quella della legge di grazia; volevo sprigionare tutti, riunendo tutti insieme, e dare loro la libertà di figli miei. Con lo stare tre ore volli riabilitare le tre età dell’uomo: la fanciullezza, la gioventù e la vecchiaia; volli riabilitarlo quando pecca per passione, per volontà e per ostinazione. Oh, come l’oscurità che vedevo intorno a Me mi faceva sentire le fitte tenebre che produce la colpa nell’uomo! Oh, come piangevo e gli dicevo: O uomo, sono le tue colpe che mi hanno gettato in queste fitte tenebre, che Io soffro per darti la luce, sono le tue nefandezze che mi hanno imbrattato, che l’oscurità non mi permette neppure di vederle! Guardami, sono l’immagine delle tue colpe. Se vuoi conoscerle, guardale in Me!

Sappi però che nell’ultima ora in cui stetti in prigione spuntò l’alba e dalle fessure entrò qualche barlume di luce. Oh, come respirò il mio Cuore nel poter vedere il mio stato sì doloroso. Ma ciò significava [che] quando l’uomo [è] stanco della notte della colpa, la grazia come alba si fa intorno a lui, mandandogli barlumi di luce per richiamarlo; perciò il mio Cuore diede un sospiro di sollievo. E in quest’alba vidi te, mia diletta prigioniera, che il mio amore doveva legare in questo stato e che non mi avresti lasciato solo nell’oscurità della prigione, aspettando l’alba ai miei piedi, e seguendo i miei sospiri avresti pianto con Me la notte dell’uomo. Questo mi sollevò e offrii la mia prigionia per darti la grazia di seguirmi.

Ma un altro significato conteneva questa prigione e questa oscurità: era la lunga mia dimora della mia prigionia nei tabernacoli, la solitudine in cui sono lasciato, per cui molte volte non ho a chi dire una parola o dare uno sguardo d’amore. Altre volte sento nella santa ostia le impressioni dei tocchi indegni, la puzza di mani marciose e fangose, e non vi è chi mi tocchi con mani pure e mi profumi col suo amore; e quante volte l’ingratitudine umana mi lascia all’oscuro, senza la misera luce di una lampadina, sicché la mia prigione dura e durerà ancora. E siccome siamo tutti e due prigionieri – tu, prigioniera nel letto solo per amor mio, Io prigioniero per te – col mio amore [voglio] legare, con le catene che mi tengono avvinto, tutte le creature. Così ci faremo compagnia a vicenda e mi aiuterai a stendere le catene per legare tutti i cuori al mio amore”.

14° Ora (Dalle 6 alle 7)

Gesù è riportato a Caifa, che conferma la condanna a morte e lo invia a Pilato:

(Vol. 15°, 5-7-1923) Stavo accompagnando il mio penante Gesù nelle ore della sua amarissima Passione, specie quando Gesù fu presentato dai giudei a Pilato e accusato, e Pilato, non contento delle semplici accuse che gli facevano, ritornava alle interrogazioni per trovare causa sufficiente o per condannarlo o per liberarlo.

E Gesù, prendendo il suo dire nel mio interno, mi ha detto:

“Figlia mia, tutto è mistero profondo nella mia Vita e insegnamenti sublimi, in cui l’uomo deve specchiarsi per imitarmi.

Tu devi sapere che era tanta la superbia dei giudei, specie per la finta santità che professavano, per cui erano tenuti per uomini retti e coscienziosi, che credevano che con solo presentarmi loro e dire che mi avevano trovato colpevole e reo di morte, Pilato doveva crederli e senza farli subire nessun interrogatorio doveva condannarmi, molto più che avevano a che fare con un giudice gentile che non aveva né conoscenza di Dio né coscienza. Ma Dio dispose diversamente per confonderli e per insegnare ai superiori che per quanto buone e sante sembrino le persone che accusano un povero reo, non [bisogna] credere loro facilmente, ma quasi impacciarle con tante interrogazioni per vedere se c’è la verità, oppure sotto quell’abito di bontà c’è qualche gelosia o rancore, o [è] per strappare dai superiori, facendosi strada nei loro cuori, qualche posto o dignità ambita.

Lo scrutinio fa conoscere le persone, le confonde e si mostra che non si ha fiducia di loro, e, non vedendosi apprezzati, si tolgono il pensiero di ambire posti o di accusare altri. Quanto male fanno quei superiori quando ad occhi chiusi, fidandosi di una finta bontà, non di una virtù provata, li mettono in un posto o danno ascolto a chi accusa di qualche reità. Quanto non restarono umiliati i giudei nel non essere creduti facilmente da Pilato, nel subire tante interrogazioni! E se [Pilato] cedette a condannarmi, non fu perché credette loro, ma forzato e per non perdere il posto. Questo li confuse in modo che restò, come marchio sulla loro fronte, una estrema confusione e una umiliazione profonda; molto più, che scorgevano in un giudice gentile più rettitudine e più coscienza che in loro. Quanto è necessario e giusto lo scrutinio! Getta luce e calma nei veri buoni e confusione nei cattivi.

E quando volendo scrutinare anche Me, Pilato mi domandò: «Re sei Tu? E dove è il tuo regno?», Io volli dare un’altra sublime lezione col dire: «Re Io sono», e volevo dire: «Ma sai tu qual è il mio regno? Il mio regno sono i mie dolori, il mio sangue, le mie virtù; questo è il vero regno, che non fuori di Me, ma dentro di Me posseggo. Ciò che si possiede fuori non è vero regno né sicuro dominio, perché ciò che non sta nell’uomo, può essere tolto, usurpato, e sarà costretto a lasciarlo; invece ciò che c’è dentro nessuno potrà toglierlo, il dominio sarà eterno dentro di lui. Le caratteristiche del mio regno sono le mie piaghe, le spine, la croce, dove non faccio come gli altri re, che fanno vivere i popoli fuori di loro, mal sicuri e, se occorre, digiuni; Io no, chiamo i miei popoli ad abitare nelle stanze delle mie piaghe, fortificati e difesi dai miei dolori, dissetati dal mio sangue, sfamati dalle mie carni; e solo questo è il vero regnare, tutti gli altri regni sono regni di schiavitù, di pericoli e di morte; nel mio regno c’è la vera vita».

Quanti insegnamenti sublimi, quanti misteri profondi nelle mie parole! Ogni anima dovrebbe dire a se stessa nelle pene e nei dolori, nelle umiliazioni e abbandoni da tutti, nel praticare le vere virtù: «questo è il mio regno, non soggetto a perire; nessuno me lo può togliere, né toccare, anzi il mio regno è eterno e divino, simile a quello del mio dolce Gesù. I miei dolori e pene me lo certificano e rendono il regno più fortificato e agguerrito, tanto che nessuno potrà muovermi battaglia in vista della mia grande fortezza». Questo è regno di pace al quale dovrebbero ambire tutti i figli miei.”

15° Ora (Dalle 7 alle 8)

Gesù dinanzi a Pilato; Pilato Lo manda da Erode:

(Vol. 13°, 16-9-1921) Stavo facendo l’ora della Passione, quando il mio dolce Gesù si trovava nel palazzo di Erode vestito da pazzo e burlato, e il mio sempre amabile Gesù, facendosi vedere, mi ha detto:

“Figlia mia, non solo allora fui vestito da pazzo, schernito e burlato, ma le creature continuano a darmi queste pene, anzi sono in continue burle, da tutte le specie di persone. Se una persona si confessa e non mantiene i suoi propositi di non offendermi, è una burla che mi fa; se un sacerdote confessa, predica, amministra sacramenti, e la sua vita non corrisponde alle parole che dice e alla dignità dei sacramenti che amministra, tante burle mi fa per quante parole dice, per quanti sacramenti amministra, e mentre Io nei sacramenti ridavo loro la vita novella, loro mi danno scherni, burle e, col profanarli, mi preparano la veste per vestirmi da pazzo. Se i superiori comandano il sacrificio ai sudditi, la virtù, la preghiera, il disinteresse, e loro menano la vita comoda, viziosa, interessata, sono tante burle che mi fanno. Se i capi civili ed ecclesiastici vogliono l’osservanza delle leggi e loro sono i primi trasgressori, sono burle che mi fanno. Oh, quante burle mi fanno! Sono tante che ne sono stanco, specie quando sotto il bene mettono il veleno del male, oh, come si prendono gioco di Me, come se Io fossi il loro trastullo e il loro passatempo. Ma la mia giustizia presto o tardi si burlerà di loro col punirli severamente. Tu prega e riparami queste burle che tanto mi addolorano e che sono causa di non farmi conosce chi Io sia”.

(Vol. 14°, 1-4-1922) “Figlia mia, il passo più umiliante della mia passione fu proprio questo, l’essere vestito e trattato da pazzo. Divenni il trastullo dei giudei, lo straccio loro. Umiliazione più grande non poteva sostenere la mia infinita sapienza. Eppure era necessario che Io, Figlio di un Dio, soffrissi questa pena. L’uomo, peccando, diventa pazzo. Pazzia più grande non può darsi, e da re, qual è, diventa schiavo e trastullo di vilissime passioni che lo tiranneggiano e più che pazzo lo incatenano a loro bell’agio, gettandolo nel fango e coprendolo delle cose più sporche. Oh, che gran pazzia è il peccato! In questo stato l’uomo mai poteva essere ammesso innanzi alla Maestà Suprema. Perciò volli sostenere Io questa pena così umiliante, per impetrare all’uomo che uscisse da questo stato di pazzia, offrendomi Io al mio Celeste Padre, a sostenere le pene che meritava la loro pazzia. Ogni pena che soffrii nella mia passione non era altro che l’eco delle pene che meritavano le creature; quell’eco rimbombava su di Me e mi sottoponeva e pene, a scherni, a derisioni, a beffe e a tutti i tormenti”.[1]

(Vol. 14°, 1-6-1922) Trovandomi nel solito mio stato, stavo seguendo le Ore della Passione del mio dolce Gesù, specie quando fu presentato a Pilato, il quale gli domandò qual era il suo regno, e il mio sempre amabile Gesù mi ha detto:

“Figlia mia, fu la prima volta nella mia vita terrena che ebbi che fare con un preside gentile, il quale mi domandò qual era il mio regno, ed Io gli risposi che il mio regno non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse, migliaia di legioni di angeli mi difenderebbero. Ma con ciò aprivo ai gentili il mio Regno e comunicavo loro le mie celesti dottrine, tanto che Pilato mi domandò: «Come, Re sei Tu?» Ed Io subito gli risposi: «Re Io sono, e sono venuto nel mondo ad insegnare la verità». Con ciò Io volevo farmi via nella mente di lui per farmi conoscere, tanto che come colpito mi domandò: «Che cosa è la verità?», ma non aspettò la mia risposta; non ebbi il bene di farmi capire. Gli avrei detto: «La Verità sono Io: tutto in Me è verità. Verità è la mia pazienza in mezzo a tanti insulti. Verità è il mio sguardo dolce tra tante derisioni, calunnie, disprezzi. Verità sono i miei modi affabili, attraenti, in mezzo a tanti nemici, che mentre loro mi odiano, Io li amo, e mentre vogliono darmi la morte, Io voglio abbracciarli e dar loro la vita. Verità sono le mie parole dignitose e piene di sapienza celeste. Tutto in Me è verità. La verità è più che sole maestoso, che per quanto si vuole calpestare, sorge più bello, più luminoso, da far vergogna agli stessi nemici e atterrarli innanzi ai suoi stessi piedi». Pilato mi domandò con sincerità d’animo, ed Io fui pronto a rispondergli. Invece Erode mi domandò con malignità e per curiosarmi, ed Io non risposi. Sicché a chi vuole sapere le cose sante con sincerità Io mi rivelo più di quello che si vuole; invece, a chi vuole saperle con malignità e per curiosarle Io mi nascondo, e mentre loro si vogliono far beffe di Me, Io confondo loro e me ne faccio beffe di loro. Ma siccome la mia Persona portava con sé la verità, anche innanzi ad Erode fece il suo ufficio. Il mio silenzio alle domande tempestose di Erode, il mio sguardo modesto, l’aria tutta piena di dolcezza, di dignità, di nobiltà della mia stessa Persona, erano tutte verità e verità operanti”.

(Vol. 14°, 24-11-1922) Stavo pensando al mio dolce Gesù quando fu presentato ad Erode, e dicevo tra me: “Come è possibile che Gesù, tanto buono, non si degnò di dirgli una parola e dargli uno sguardo? Chissà che quel perfido cuore, alla potenza del suo sguardo, non si sarebbe convertito?”

E Gesù, facendosi vedere, mi ha detto: “Figlia mia, era tanta la sua perversità e indisposizione di animo, che non meritò che lo guardassi e gli dicessi una parola, e se lo avessi fatto si sarebbe reso maggiormente colpevole, perché ogni mia parola o sguardo è un vincolo di più che si forma tra Me e la creatura; ogni parola è un’unione maggiore, una strettezza di più, e come l’anima si sente guardata, la Grazia incomincia il suo lavorio. Se lo sguardo o se la parola è stata dolce, benigna, dice: «Come era bella, penetrante, soave, melodiosa! Come non amarlo?» Se poi è stato uno sguardo o una parola maestosa, sfolgorante di luce, dice: «Che maestà, che grandezza, che luce penetrante! Come mi sento piccola, come sono misera! Quante tenebre in me innanzi a quella luce così sfolgorante!» Se ti volessi dire la potenza, la grazia, il bene che porta la mia parola o sguardo, quanti libri ti farei scrivere! ”

16° Ora (Dalle 8 alle 9)

Gesù è ricondotto a Pilato e posposto a Barabba.

Gesù flagellato:

(Vol. 8°, 6-9-1908) Continuando il mio solito stato, stavo pensando al mistero della flagellazione, e venendo Gesù e pressandomi [con] la mano le spalle, nel mio interno mi sentivo dire: “Figlia mia, volli che le carni fossero sparse a brandelli, e il mio sangue [fosse] versato da tutta la mia Umanità per riunire tutta l’umanità dispersa. Difatti, col fare che tutto ciò che della mia Umanità fu strappato, carne, sangue, capelli, nella Risurrezione nulla fosse disperso, ma tutto fosse riunito di nuovo alla mia Umanità, con ciò Io incorporavo tutte le creature in Me, sicché, dopo questo chi da Me va disperso, è di ostinata volontà che da Me si strappa per andare a perdersi.”

(Vol. 14°, 9-2-1922) Trovandomi nel solito mio stato, stavo seguendo le Ore della Passione, e il mio dolce Gesù, mentre lo accompagnavo nel mistero della sua dolorosa flagellazione, si faceva vedere tutto scarnificato e il suo corpo denudato, non solo delle sue vesti, ma anche delle sue carni. Le sue ossa si potevano numerare uno per uno. Il suo aspetto era non solo straziante, ma orribile a vedersi, che incuteva timore, spavento, riverenza e amore insieme. Io mi sentivo muta innanzi ad una scena così straziante; avrei voluto fare chi sa che cosa per sollevare il mio Gesù, ma non sapevo far nulla. La vista delle sue pene mi dava la morte, e Gesù, tutto bontà, mi ha detto:

“Diletta figlia mia, guardami bene per conoscere a fondo le mie pene. Il mio corpo è il vero ritratto dell’uomo che commette il peccato. Il peccato lo spoglia delle vesti della mia Grazia, ed Io per ridonarla di nuovo, mi feci spogliare delle mie vesti. Il peccato lo deforma e, mentre è la più bella creatura che uscì dalle mie mani, si rende la più brutta e fa schifo e ribrezzo. Io ero il più bello degli uomini e, per ridonare la bellezza all’uomo, posso dire che la mia Umanità prese la forma più brutta. Guardami, come sono orrido…! Mi feci scorticare la pelle a via di sferzate, da non più conoscermi. Il peccato non solo toglie la bellezza, ma forma piaghe profonde, marciose e cancrenose, che rodono le parti più intime e gli consumano gli umori vitali, sicché tutto ciò che fa sono opere morte, scheletrite, che gli strappano la nobiltà della sua origine, la luce della sua ragione e diventa cieco. Ed Io, per riempire la profondità delle sue piaghe, mi feci strappare a brandelli le carni, mi ridussi tutto una piaga e, col versare a fiumi il sangue, feci scorrere gli umori vitali nella sua anima, per ridonargli di nuovo la vita. Ah, se non avessi in Me la fonte della vita della mia Divinità, che mi sostituiva la vita come la mia Umanità moriva ad ogni pena che mi davano, Io sarei morto fin dal principio della mia Passione. Ora le mie pene, il mio sangue, le mie carni cadute a brandelli, stanno sempre in atto di dar vita all’uomo, e l’uomo respinge il mio sangue per non ricevere la vita, calpesta le mie carni per restar piagato. Oh, come sento il peso dell’ingratitudine!”

E gettandosi nelle mia braccia, ha rotto in pianto. Io me l’ho stretto al cuore, ma Lui piangeva forte. Che strazio veder piangere Gesù! Avrei voluto soffrire qualunque pena, per non farlo piangere. Onde l’ho compatito, gli ho baciato le piaghe, gli ho rasciugato le lacrime, e Lui, come riconfortato, ha soggiunto: “Sai come faccio Io? Come un padre che ama molto suo figlio, e questo figlio è cieco, deforme, zoppo; e il padre, che lo ama fino alla follia, che fa? Si cava gli occhi, si strappa le gambe, si scortica la pelle e glielo dà tutto al figlio e dice: Sono più contento di restare io cieco, zoppo, deforme, purché veda te, mio figlio, che vedi, che cammini, che sei bello… Oh, come è contento quel padre, che vede suo figlio guardare coi suoi occhi, camminare con le sue gambe e coperto con la sua bellezza! Ma quale sarebbe il dolore del padre, se vede che il suo figlio, ingrato, gli getta via gli occhi, le gambe, la pelle, e si contenta di restare brutto qual è? Tale sono Io, a tutto ci ho pensato, ma essi, ingrati, formano il mio più acerbo dolore”.

(Vol. 15°, 1-12-1922) “Figlia mia, Io soffrii tutte le pene nella mia Volontà, e come le soffrii, aprivano tante vie nella mia Volontà, per giungere a ciascuna creatura. Se non avessi sofferto nella mia Volontà, che involge tutto, le mie pene non sarebbero giunte fino a te e a ciascuno; sarebbero rimaste con la mia Umanità. Anzi, con averle sofferto nella mia Volontà, non solo aprivano tante vie per andare a loro, ma ne aprivano tante altre per far entrare le creature fino a Me ed unirsi con quelle pene e darmi ciascuna le pene che con le loro offese mi dovevano dare in tutto il corso dei secoli. E mentre Io ero sotto la tempesta dei colpi, la mia Volontà mi portava ciascuna creatura a colpirmi, sicché non furono solo quelli che mi flagellarono, ma le creature di tutti i tempi, che con le loro offese avrebbero concorso alla barbara flagellazione, e così in tutte le altre pene: la mia Volontà mi portava tutti, nessuno mancava all’appello. Tutti erano a Me presenti, nessuno mi sfuggì. Perciò le mie pene furono, oh, quanto più dure, più molteplici di quelle che si videro! Onde se vuoi che le offerte delle mie pene, la tua compassione e riparazione, le tue piccole pene, non solo giungano fino a Me, ma facciano le stesse vie delle mie, fa che tutto entri nel mio Volere, e tutte le generazioni riceveranno gli effetti. E non solo le mie pene, ma anche le mie parole, perché dette nella mia Volontà, giungevano a tutti.

Come per esempio, quando Pilato mi domandò se Io fossi re, Io risposi: «Il mio Regno non è di questo mondo. Se di questo mondo fosse, milioni di legioni di angeli mi difenderebbero». E Pilato, nel vedermi sì povero, umi-liato, disprezzato, si meravigliò e disse più marcato: «Come, Re sei Tu?». Ed Io con fermezza risposi a lui e a tutti quelli che si trovano al suo posto: «Re Io sono, e sono venuto nel mondo ad insegnare la Verità, e la Verità è che non sono i posti, i regni, le dignità, il diritto del comando, che fanno regnare l’uomo, che lo nobilitano, che lo innalzano su tutti; anzi, queste cose sono schiavitù, miserie, che lo fanno servire a vili passioni, ad uomini ingiusti, commettendo anche lui tanti atti d’ingiustizia che lo privano della nobiltà, lo gettano nel fango e gli attirano l’odio dei suoi dipendenti. Sicché le ricchezze sono schiavitù, i posti sono spade con cui molti restano uccisi o feriti. Il vero regnare è la virtù, lo spogliamento di tutto, il sacrificarsi per tutti, il sottoporsi a tutti; e questo è il vero regnare, che vincola tutti e si fa amare da tutti. Onde il mio Regno non avrà mai fine e il tuo è vicino a perire». E queste parole le facevo giungere nella mia Volontà all’orecchio di tutti quelli che si trovano in posti di autorità, per far loro conoscere il grande pericolo in cui si trovano e per mettere in guardia coloro che aspirano ai posti, alle dignità, al comando”.



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